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sabato, Marzo 15, 2025

L’eccidio di Salussola, Mattarella: “La Repubblica di inchina ai partigiani”

PoliticaL’eccidio di Salussola, Mattarella: “La Repubblica di inchina ai partigiani”

di Roberto Antonini e Cristina Rossi

ROMA – Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha inviato al Sindaco di Salussola, Manuela Chioda, il seguente messaggio: “Ricorrono gli ottant’anni dell’eccidio di Salussola. La Repubblica si inchina ai partigiani della XII Divisione Garibaldi, ferocemente torturati e poi fucilati per mano dei fascisti che, già da qualche giorno, stazionavano in paese.La XII Divisione Garibaldi si rese protagonista nell’intero Biellese – grazie all’apporto della popolazione dalle solide tradizioni operaie – dei più significativi momenti della guerra di Liberazione, impegnando, in continui combattimenti e attacchi, ingenti forze nemiche che furono sottratte al fronte di guerra.

La volontà di riaffermare l’attaccamento alla libertà e agli insopprimibili diritti spinse gli operai a scendere in piazza per rendere omaggio alle vittime, il 14 marzo 1945, con uno sciopero generale organizzato dal CLN tramite l’emittente partigiana biellese ‘Radio Libertà’, che trasmetteva da Callabiana.Il loro sacrificio, i valori alla base della loro scelta, hanno dato vita ai principi fondamentali della nostra Carta Costituzionale: libertà, democrazia, pace e giustizia sociale, che rappresentano la meta alla quale ambire convintamente ogni giorno”.

L’ECCIDIO RACCONTATO DA “PITTORE”, L’UNICO SOPRAVVISSUTO

Il partigiano Sergio Rosa Canuto, nome di battaglia “Pittore”, fu l’unico a salvarsi dei 21 partigiani della Divisione Garibaldi, catturati, torturati e uccisi dai militi repubblicani della compagnia Montebello. La sua testimonianza di quanto successo fu depositata, alcuni giorni dopo l’eccidio, al Comando della Zona Libera di Sala Biellese.

“Ripiegando dal Monferrato dopo 40 ore di marcia noi trentatré partigiani in distaccamento della 109ª Brigata 12ª Divisione d’assalto Garibaldi decidemmo di prendere un’ora di riposo in una fattoria vicino tra Bianzè e Livorno Ferraris sulla sponda sinistra del canale Cavour. Era esattamente il 1 Marzo, dalle quattro alle cinque del mattino, quando sostammo alla “Cascina Spinola”. I padroni con i garzoni si trovavano già alzati per i lavori e dietro nostra richiesta ci promisero di dare qualche occhiata in giro e di avvertirci se avessero notato qualche cosa di anormale nei dintorni. Noi supponendo dalle informazioni precedenti la zona perfettamente libera, commettemmo l’irreparabile errore di non fare la guardia e ci addormentammo tutti, chi nelle stalle e chi nei fienili.Aprii gli occhi sentendo dal cortile voci perentorie di: “Alt, su le mani banditi”. Cinque nostri compagni già stavano nelle mani dei Repubblicani, in mezzo ad un gruppo di loro, mentre altri elementi catturavano nelle stalle una ventina di altri compagni, tutti sorpresi nel sonno. Io nel fienile col mitragliatore Bren tra le mani mi trovai nel penoso caso di non poter sparare sugli assalitori per non uccidere i miei stessi compagni circondati dai nemici.

Circondati da un’intera compagnia di Repubblicani (MP Macerata) armati con tre mitragliatrici pesanti, nove o dieci fucili mitragliatori, tre mortai e più di un centinaio di mitra e moschetti, dovemmo arrenderci poco dopo. La sera stessa fummo portati a Livorno, e in camion a Tronzano al comando tedesco… ingiurie, percosse, insulti da parte dei soldati tedeschi e dei militi, e infine la consegna di ogni avere (soldi, cosette personali, ecc).

Poco dopo ci confinarono in una aula della scuola locale ben difesa e ben guardata, dove rimanemmo per 4 giorni. Nel frattempo dodici dei nostri vennero portati a Vercelli, così rimanemmo in ventuno. La sera del 5 marzo, ci portarono a Santhià nella caserma occupata dagli Alpini, ci esiliano ed ebbero inizio così per noi le torture poiché passammo quattro giorni in piccole celle per cinque persone, che noi invece occupavamo in dieci. La sera dell’otto fummo trasferiti a Salussola con la prospettiva di un cambio con soldati tedeschi. Appena giunti venivamo rinchiusi in uno stanzone del Municipio, e i militi (della Montebello) criminali, vigliacchi, mostri in camicia nera ci massacrarono a base di pugni, calci, bastonate, con il calcio del moschetto, e molti ne riportarono rotta la testa e le mandibole.

Parecchi perdevano sangue a fiotti dalle ferite della testa, dalla bocca, e dal naso, uno principalmente ferito da una baionettata rantolava in fin di vita immerso in un lago di sangue. Chiesi di poter accendere la luce per soccorrere i miei compagni, ma non ebbi altro risultato che una replica di pugni dalla guardia tedesca, con l’assicurazione che se fiatavo sarebbero rientrati per fare il peggio. Comprendevo dai loro discorsi che si proponevano di trucidarci prima di impartirci il colpo di grazia: parlavano infatti di lesioni fatte con il pugnale, di membra strappate per mezzo di automezzi col classico colpo a strappo. Stringemmo i denti, pensando che qualcuno ci avrebbe vendicati. Intanto le ore passavano nel gelo e nell’orgasmo di quell’attesa.

Ecco: le quattro dell’alba del 9 marzo sono scoccate dal campanile vicino, passano pochi minuti ancora e l’animazione nel cortile cresce fino a che la chiave gira nella serratura e i nostri assassini entrano con (I Primi tre: sentenzia uno) a tali parole di mia volontà uscii con altri due; ciascuno di noi era trattenuto da tre militi per le braccia e per il colletto, e proseguimmo così fino al muro del vicino cimitero tra insulti, sputi e calci. Terminavano allora di spingere un camioncino i cui fari accesi illuminavano un largo tratto del muro; sul camion era piazzata una mitragliatrice con un uomo al pulsante…

Non c’era che dire, i preparativi erano stati fatti a dovere. ..Potevo ancora vivere pochi secondi, un milite venne vicino e con ghigno particolarmente feroce mi disse che era troppo comodo morire tutto d’un colpo, e che voleva straziarmi prima che fossi finito dalla mitragliatrice. Così dicendo prese a levarmi il giubbotto; nello stesso momento che mi faceva scivolare le maniche dalle braccia mi son sentito una mano libera ed ho reagito con violenza volando addosso al mio aguzzino e buttandolo a terra. Un altro milite mi aggredì, dandomi un fortissimo colpo colla canna del fucile sulla fronte, facendomi barcollare un attimo senza più vedere nulla. Ma per fortuna mi ripresi subito e respinsi pure lui con uno spintone, afferrandolo e chiudendolo fra le braccia.

Incominciammo a rotolare insieme sul terreno, e poi giù per una china tra rovi e sassi. Si iniziò tra di noi una lotta furibonda che per me significava la vita o la morte. Incominciai a morderlo, colpirlo, a forza di pugni e schiaffi, benché cercasse di estrarre il pugnale dalla cintura, ma il peso del mio corpo glielo impediva.

Quell’animale chiedeva aiuto; allora lo afferrai per la gola e gli somministrai un’ultima dose di pugni, e poi riuscii ad alzarmi alquanto malconcio. Era tempo: alcuni accorrevano sulle mie tracce coi mitra alla mano, e mi sparavano nella mia direzione, mentre io rotolavo nuovamente per i pendii, sbattendo un po’ dappertutto, sentendo le raffiche che schiantavano i rami e scheggiavano i sassi. Rotolavo fra i rovi facendo un fracasso indiavolato e perdendo da ogni parte molto sangue che immediatamente si coagulava. Precipitavo come un masso in fondo al vallone verso il torrente, mentre dall’alto continuava la sparatoria e le pallottole fischiavano tutto attorno. Tiratomi fuori dall’acqua, proseguii come un automa attraverso un lungo campo arato, inceppando e cadendo spesso. Le scarpe, regalo di un repubblicano, erano sfondate, i piedi indolenziti e gelati sembravano di piombo. Proseguii: lassù finalmente avevano smesso di sparare nella mia direzione; poco dopo sentii una scarica nutrita seguita da cinque colpi alternati, cinque miei compagni erano morti , il classico colpo di grazia mi permetteva di conoscere la loro fine. Successivamente altre tre scariche mi gelavano il sangue: i miei venti compagni torturati chiedevano vendetta”.

(fonte foto di apertura: https://www.centroterritorialevolontariato.org/)
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