Nel Partnership report progetti di ricerca per trasformare filiera ittica
Milano, 4 dic. (askanews) – Nobilitare gli scarti. Suona un po’ come un ossimoro quest’affermazione ma, in realtà, è una delle direttrici della trasformazione, non più rimandabile, dei sistemi alimentari globali, per garantire sostenibilità ambientale e accessibilità al cibo. L’industria delle conserve ittiche, insieme a università e istituti di ricerca, si sta muovendo proprio in questa direzione: valorizzare ciò che fino a oggi è stato considerato poco più di un rifiuto. “Negli scarti del tonno c’è una miniera d’oro” afferma Alberto Dolci, global strategic health & science program manager di Bolton Food, in questa intervista. Tradotto – ci spiega col piglio scientifico che gli deriva dalla carriera accademica – quegli scarti, oggi destinati per lo più alla mangimistica animale, presto potranno essere utili per produrre colle stick o per la cosmesi. Ma è in corso anche uno studio strategico per aumentare la quantità di prodotto edibile attraverso composti naturali che ritardano la decomposizione del pescato.
Di questi progetti, Bolton Food – business unit della multinazionale italiana Bolton che si occupa di prodotti del largo consumo – ha raccontato nel suo primo Partnership report, dedicato alle attività di ricerca portate avanti, in ambito scientifico e alimentare, attraverso progetti di partenariato a lungo termine. Un rapporto che mette in luce alcuni dati utili per capire il futuro dei sistemi alimentari globali e quello dell’industria ittica in particolare. Il primo è che attualmente “solo il 14% circa dell’apporto calorico mondiale arriva dai mari che, invece, ricoprono il 70% della superficie terrestre”. Ma la domanda globale di prodotti ittici è in costante aumento, con proiezioni che indicano una crescita fino al 56% entro il 2050 a fronte dell’aumento e del costante invecchiamento della popolazione mondiale con il conseguente incremento della morbilità. Il secondo è che oggi “circa il 40% del tonno, che è un animale grosso quasi come una vacca e non un pesciolino rosso – rimarca Dolci – viene utilizzato per il consumo alimentare. Il resto diventa farine alimentari: non viene buttato nulla ma è una tecnologia che non valorizza la risorsa pesce al meglio. Considerato che ogni anno nel mondo di tonno se ne pescano 5 milioni di tonnellate, quasi tre sono scarto: lì c’è una miniera d’oro”. Da qui l’idea che “le grandi multinazionali – e noi siamo nel 90% delle famiglie italiane con 600 milioni di scatolette di tonno prodotte ogni anno – non si possano non concepire come una parte sociale. E questo è un cambio di visione”.
Alla luce di questi dati, dunque, Bolton, che produce tra le altre cose anche la colla Uhu, ha avuto l’idea di ricavare dagli scarti del tonno molecole per un bioadesivo di origine animale. “L’idea è nata dallo stereotipo della colla di pesce – racconta Dolci – il problema, però, era trovare alternative replicabili e industrializzabili. Per farlo occorreva capire quali fossero i principi attivi nel pesce, in quali aree anatomiche recuperarli e come industrializzare il processo per avere un corrispettivo della colla in stick di origine animale”. Ecco allora che è iniziata “una ricognizione sull’utilizzo delle singole parti degli scarti: nelle colle per esempio da una parte c’è la molecola adesiva dall’altra un filler che di solito è pietra macinata. Ecco abbiamo pensato di sostituirla con le lische e gli ossi del pesce che forse hanno una resa ancora migliore e incollano molto meglio”. Ma quanto tempo servirà per avere una colla stick di origine animale? “Abbiamo vinto il bando a gennaio 2024 capitanato dall’università di Bologna: in 48 mesi di tempo si deve arrivare a un pilota industriale. Noi abbiamo dichiarato che entro 36 mesi dovremo avere almeno due prototipi di adesivi derivanti da pesce e questi sono milestone da rispettare”.
Ma gli “scarti del pesce” possono trovare impiego anche nella nutraceutica, nella cosmesi e in agricoltura. Ed è qui che sta andando avanti la ricerca. “Negli scarti del pesce c’è collagene di tipo uno o nativo, quello che si usa nei grandi ustionati, per usi clinici ed emergenziali. Solitamente per la cosmesi, invece, si usa collagene plant based che ha un’efficacia infinitamente minore. Oggi, però, il costo di una tonnellata di collagene nativo è intorno ai 10mila dollari mentre il plant based è vari ordini di grandezza inferiore. Eppure oggi ne perdiamo molto perchè non abbiamo una tecnologia economicamente sostenibile o scalabile dal punto di vista industriale per recuperarlo”. Stesso discorso per la trasformazione degli scarti in fertilizzante biologico come l’azoto e il potassio: “Con la guerra in Ucraina, primo produttore di fertilizzanti, era diventato un problema reperire. Ma noi sappiamo che il pesce può diventare un ottimo concime biologico e non di sintesi”.
Ma per la riduzione degli scarti, oltre che sul reimpiego, Bolton food sta lavorando anche sul miglioramento della conservazione della materia prima: “E’ il progetto più strategico che abbiamo: del 60% di tonno attualmente considerato scarto circa un 8-10% potrebbe essere salvato – afferma Dolci – Il tonno appena smette di nuotare muore e inizia a degradarsi a causa dell’attività batterica: la nostra idea è trovare una sostanza chimica che rallenti l’attività batterica in modo che la carne da scartare in fase di pulitura sia minore”. Le conseguenze del deterioramento dei prodotti ittici, infatti, sono di vasta portata con perdite finanziarie significative e rilevanti ricadute ecologiche. Di qui questo poderoso lavoro di ricerca che senza una partnership pubblico-privato anche una grande multinazionale come Bolton non potrebbe portare avanti: “I partenariati industriali del Pnrr o i progetti europei come One Earth per la prima volta obbligano istituti ed enti pubblici ad avere un partner industriale per partecipare al bando perché ci deve essere una logica di impatto e non puro esercizio di ricerca – spiega il manager – Per noi la grande sfida è accedere a competenze che non avremmo e poi, tramite questi fondi, accedere a programmi a medio e lungo termine che altrimenti non riusciremmo a fare, soprattutto in un momento come questo di rialzo dei costi delle materie prime. E’ un approccio culturalmente nuovo questa commistione tra mondi diversi, ha tantissime sfide ma iniziamo a vedere risultati”.
Nel suo primo partnership report, suddiviso in due sezioni – la prima sul ruolo dei prodotti ittici nella salute della popolazione mondiale e nella lotta alla malnutrizione, e la seconda sul riutilizzo innovativo delle risorse ittiche – Bolton food rendiconta proprio il lavoro portato avanti attraverso due e progetti di partenariato a lungo termine: quello con Onfoods, fondazione nata nel 2022 come parte di uno dei 14 partenariati del Pnrr, finanziato dal programma Next Generation EU, di cui fanno parte 26 aziende alimentari e istituti universitari e di ricerca. E One Hearth, il programma di ricerca quadriennale avviato a giugno 2024, finanziato coi fondi Horizon Europe della Commissione europea e coordinato dall’Università di Bologna, che riunisce un consorzio interdisciplinare di 14 partner provenienti da otto Paesi europei.