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Continuare a farci male: la grandezza di Anselm Kiefer

AttualitàContinuare a farci male: la grandezza di Anselm Kiefer

Una lettura della mostra “Angeli caduti” a Palazzo Strozzi

Firenze, 29 mar. (askanews) – È indubbio che un parte del fascino sia dovuta al nome dell’artista, un nome che evoca la Storia con la maiuscola, il potere dell’arte, una grandezza sconfinata. Evoca anche celebrità, in senso culturale certo, ruvida, scontrosa, ma celebrità. La mostra di Anselm Kiefer a Palazzo Strozzi a Firenze forse arriva al pubblico partendo da qui, dall’aura e dalla possanza del suo protagonista, storicizzato in vita come pochi altri. Ma fermarsi a questo livello, che se volete potrebbe essere il livello del grande dipinto posto nel cortile del palazzo – cosa assolutamente meritoria per l’idea di spazio pubblico e fruizione libera, sia chiaro -, limitarsi a questo sarebbe un errore, perché la mostra, poi, riesce in molti modi a superare il Nome e a lasciare che lo spazio sia interamente occupato dall’arte, dalla forza che anima la figura, paradigmatica quanto volete, di Anselm Kiefer.

L’esposizione, curata dal direttore di Palazzo Strozzi, Arturo Galansino, si intitola “Angeli caduti” e l’ingresso non potrebbe essere più potente: c’è l’enorme ala di un aereo che esce dal dipinto dedicato a Lucifero, il più bello dei ribelli celesti, e questa ala, a chiunque appartenga, è un colpo che ci trascina dentro il senso della storia, dentro la sua e nostra tragedia, dentro una scala di grandezze che sono ulteriori. Sono i bombardieri nucleari che non atterrano mai, sono le guerre dal cielo, sono forse semplicemente la metafora esplicita della potenza terribile di un angelo, “Michele”, è scritto in ebraico, sotto l’ala.

Poi due grandi opere dorate dedicate a Eliogabalo e il primo dei giganteschi girasoli, che testimoniano il ciclo della vita, ma anche dell’arte. Non servono troppe speculazioni, qui è la pittura a farla da padrona, così tanto da far dimenticare il brutto pavimento della sala, che è illuminata dalla luce dei dipinti, come se fossero una sorta di scenografia per il museo stesso. Se le opere dedicate ai filosofi sono meno travolgenti, poi la mostra si rimette subito in moto, con le sculture e i libri e la parola e l’architettura. Ancora una volta l’uso dell’oro è decisivo, perché cita il Trecento, ma lo fa “alla Kiefer”, e quindi in modo attualizzato. La scrittura inonda la sala, sotto forma di segni, indicazioni, tracce che sono macerie di mitologie, come quella di Danae, ma anche di storia dell’arte, e non si può non pensare a Beuys, al suo corpo, ai suoi materiali. Letteratura che si manifesta ancora, sotto forma di uno specchio borgesiano che crea una voragine nella sala della rocambolesca quadreria sulla dissoluzione, uno specchio che letteralmente fa precipitare in un’altra dimensione, quasi fosse un enorme Aleph che contiene tutto il Mondo (e se tutto è dentro, fuori resta il nulla, la scomparsa, anche di questo ci parla l’artista).

A questo punto la mostra ha funzionato, ci ha scombussolato e commosso. Ci sono ancora le spose, ci sono altri girasoli, ci sono continui rimandi alla consapevolezza di Kiefer come artista e come essere umano. Ma Galansino ha la brillantezza per giocare ancora con il suo visitatore, consegnandoci un’ultima sala che in un certo senso finge di demolire tutta la mitologia dell’artista che abbiamo costruito fino a quel momento, passo dopo passo. Tutta la meraviglia che abbiamo accumulato sembra di colpo rimbalzare sopra le superfici piombate delle fotografie di fine anni Sessanta che ritraggono un più giovane Kiefer vestito con la divisa della Wehrmacht che apparteneva al padre nell’atto di fare il saluto nazista in diversi luoghi d’Europa. Anche sapendo che sono azioni che avevano l’esplicito scopo di far riflettere sul tema dell’identità e sulla notte più cupa, che è sempre pronta a entrare nelle nostre vite, quelle fotografie toccano, smuovono, confondono. E ci dicono che l’arte è importante quando non è un santino o un talismano e neppure una valutazione stratosferica da Christie’s. L’arte è importate se continua (anche) a farci male.

(Leonardo Merlini)

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