Milano, 19 mar. (askanews) – Sui dazi c’è “tanta preoccupazione, quanta incertezza” tra i pastai italiani, anche perchè non c’è alcun elemento “che ci possa far immaginare la percentuale che verrà o meno applicata”. Quantificarne oggi degli effetti economici è, dunque, “prematuro”, “ma esprimiamo preoccupazione così come tutti gli altri comparti del settore alimentare”. A parlare è Cristiano Laurenza, segretario dei pastai di Uniofood, che a proposito dell’arrivo di eventuali tariffe avverte: non sarebbero sostenibili dalle aziende e finirebbero col pesare, di fatto, sulle tasche dei consumatori.
Tanto più che sulla pasta ci sono già dei dazi. “C’è una quota antidumping e una countervailing duty (il cosiddetto dazio compensativo comminato dall’Organizzazione mondiale del commercio per controbilanciare le sovvenzioni di un Paese a sostegno delle esportazioni). Ovviamente sono dazi che noi contestiamo – spiega – perché di sussidi non ne riceviamo così come non facciamo dumping. Però, ora, aggiungere a questi altri dazi sarebbe problematico soprattutto per un settore che ha una marginalità veramente ridotta, quindi non c’è proprio possibilità di assorbirli”.
Oggi l’Italia produce 4 milioni di tonnellate di pasta, pari a 8 miliardi di euro di fatturato. All’estero finiscono 2,3 milioni di tonnellate, di cui il 65% in Europa e il restante 35% fuori. In questo 35%, in particolare, ci sono quasi 250mila tonnellate destinate alle tavole statunitensi, che potrebbero essere penalizzate proprio dai dazi. Ma le potenziali ricadute non riguardano solo l’export. Perchè l’altro lato della medaglia della guerra commerciale scatenata dagli Usa sono le contromisure dell’Unione Europea.
“Nel momento in cui l’Unione Europea dovesse stabilire dazi all’importazione di materie prime – fa notare – noi potremmo trovarci in difficoltà e non solo per motivi quantitativi”. Per l’Italia il mercato statunitense, in particolare l’Arizona, è importante per l’approvvigionamento di grano duro anche perchè la produzione nazionale non è sufficiente. “Ogni anno noi importiamo il 40% del grano duro dall’estero mediamente. E dagli Stati Uniti arriva un 10-15%. Ma a preoccuparci non è solo questo quanto anche le ricadute sui prezzi delle nostre materie prime perché la formazione dei prezzi delle commodities ha una logica globale e se aumenta il grano duro americano, tendenzialmente aumenta anche quello canadese e nazionale”.
Sulle ricadute dei dazi sui prezzi della materia prima e del prodotto finito anche Riccardo Felicetti, amministratore delegato dell’omonimo pastificio in Val di Fiemme, esprime preoccupazione. “Se gli americani dovessero bloccare le importazioni di grano canadese, questo potrebbe essere riversato su altri mercati e potrebbe essere un rischio” per i prezzi della materia prima nazionale che calerebbero. “Se, invece, come io stimo, il grano canadese, malgrado i dazi, dovesse continuare a fluire verso i pastifici americani, che comunque sono il secondo produttore di pasta al mondo e non sono per nulla autosufficienti, la quotazione della materia prima daziata aumenterà e di conseguenza potrebbero aumentare anche i prezzi della pasta negli Stati Uniti. A quel punto, col nostro prodotto gravato dai dazi, si avrebbe un aggiustamento al rialzo dei prezzi di tutti gli scaffali nordamericani. Il problema è che il nostro cliente non è il cliente del vino da mille dollari a bottiglia. Quindi l’aumento della pressione inflattiva su una fascia sociale particolarmente debole potrebbe essere particolarmente importante e avere ricadute sui consumi”. “Di base – conclude Felicetti – capiamo poco quello che è il ragionamento alla base di tutto ciò”.
L’altra variabile che negli ultimi anni ha inciso molto sul prezzo della materia prima è stata il clima, ma al momento non ci sono previsioni sul raccolto 2025 “E’ veramente presto per fare delle previsioni. Io credo che prima di aprile sarà difficile avere informazioni certe”. Tuttavia, quello che potrebbe aiutare a calmierare i mercati è la diversificazione dell’approvvigionamento, con un ruolo rafforzato della Turchia. “L’anno scorso l’arrivo sui nostri mercati del grano duro turco è stato un fenomeno che ha sorpreso anche noi – confessa – Se guardiamo all’anno prima la geopolitica delle importazioni del grano è cambiata completamente. Noi eravamo abituati a importare molto grano da Stati Uniti, Canada, Australia e Messico, e improvvisamente c’è stata una grande importazione da Russia e Turchia. In realtà la Turchia ha investito e seminato tantissimo grano duro, e quindi l’ha immesso sul mercato”. Alla fine, ammette, “non c’è stata una speculazione, ma semplicemente un fenomeno normale di riequilibrio delle geografie e sarà interessante capire quest’anno come cambierà ulteriormente lo scenario”. Del resto l’aumento della produzione di grano duro turco ha dietro anche una crescita dei pastifici locali. Ankara, infatti, è terza sul podio dei Paesi produttori di pasta, dopo Italia e Stati Uniti.
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